lunedì 10 giugno 2019

SE OSSERVIAMO IL RESPIRO, OSSERVIAMO IN REALTÀ LA NATURA: GLI INSEGNAMENTI DI AJAHN SUMEDHO


Mi piace l'idea di condividere questo bellissimo insegnamento del Reverendo monaco buddhista di origine statunitense Ajahn Sumedho (nato come Robert Jackman), ricco di concetti illuminanti per chi tenta di percorrere la via verso il risveglio. Si parla della tecnica della osservazione del respiro, considerandolo nelle difficoltà che sempre si presentano al meditatore, come le inarrestabili divagazioni della mente, che vanno considerate delle opportunità e non degli ostacoli alla meditazione. Sumedho, che rappresenta in Occidente la tradizione thailandese dei monaci della foresta del Buddhismo Teravada, mette poi in relazione inalazione ed esalazione con i cicli naturali di vita e morte, condizioni che il saggio accetta e rispetta perché, se visti alla luce della vera conoscenza, parlano di perfezione. Un vero piccolo trattato, che chiarisce molte idee a chi crede di non essere adatto alla meditazione. È tutta questione di pazienza, amore e accoglienza verso i pensieri che sorgono in continuazione nella nostra mente e la ricerca caparbia, ma senza aspettative, della pace e del silenzio profondo che vi è associato. Lo scritto di Sumedho è tratto dal volumetto Psicoterapia e Meditazione, a cura di Adalberto Bonecchi, Oscar Mondadori, Milano 1991.  


1.  Abbiamo la tendenza a svalutare ciò che è ordinario. Siamo in genere consapevoli del respiro quando non è in condizione di normalità, come quando abbiamo l'asma o abbiamo corso a lungo. Ma con anapanasati (parola sanscrita che significa: attenzione concentrata sul respiro) prendiamo il nostro respiro ordinario come oggetto di meditazione. Non cerchiamo di forzare il respiro rendendolo lungo o corto, né di controllarlo in qualche modo, cerchiamo solo di stare con la inalazione e l'esalazione normali. Il respiro non è qualcosa di immaginario, ma un processo naturale che ha luogo nel nostro corpo, e che va avanti per tutta la vita, che ci concentriamo o meno su di esso. È quindi un fenomeno sempre presente e possiamo rivolgerci ad esso in qualunque momento. Non è necessaria alcuna speciale qualifica per osservare il respiro, non è neppure necessaria una speciale intelligenza. Tutto ciò che dobbiamo fare è essere consapevoli di ogni inalazione e di ogni esalazione. La saggezza non deriva dallo studio di grandi teorie filosofiche, ma dall'osservazione dell'ordinario.
Il respiro è privo di caratteristiche che possano eccitarci o affascinarci, che possano suscitare in noi avversione o irrequietezza nei suoi confronti. Desideriamo sempre di ottenere qualcosa, di trovare qualcosa che ci interessi e ci assorba senza sforzo alcuno da parte nostra. Ascoltando della musica non ci viene da pensare: «Devo concentrarmi su questa musica ritmica, così affascinante ed eccitante!», il ritmo, così irresistibile, ci tira dentro di per sé. Il ritmo del nostro respiro normale non è interessante ed irresistibile, ma tranquillizzante, e la maggior parte di noi non è abituata alla tranquillità. Alla maggior parte di noi in effetti non piace la pace, anzi l'effettiva esperienza di essa viene trovata deludente e frustrante. Desideriamo stimoli, qualcosa che ci attiri. Anapanasati ci fa stare con un oggetto piuttosto neutrale. Non nutriamo alcun sentimento potente di piacere o di dispiacere nei confronti del nostro respiro: tutto ciò che dobbiamo fare è notare l'inizio di una inalazione, la sua parte mediana e la sua fine; poi l'inizio di una esalazione, la sua parte mediana e la sua fine. Il ritmo gentile del respiro, più lento del ritmo del pensiero, apporta tranquillità, incominciamo a smettere di pensare. Ma non cerchiamo di ottenere qualcosa dalla meditazione, di ottenere samadhi o di ottenere jhana, perché se la mente si prefigge il conseguimento di qualcosa, invece dell'umile soddisfazione del respirare, allora non c'è più alcun rallentamento e non subentra alcuna calma, e diveniamo frustrati.
Da principio la mente divaga. Quando ci rendiamo conto di essere distratti molto gentilmente torniamo al respiro. Sviluppiamo l'attitudine ad essere molto pazienti e sempre pronti a ricominciare da capo. La nostra mente non è abituata ad essere controllata; è stata istruita ad associare una cosa con un'altra e a formarsi opinioni riguardo a tutto. Siamo abituati ad usare la nostra intelligenza ed abilità in modi di pensiero astuti, ed abbiamo la tendenza a diventare molto irrequieti e tesi se non possiamo fare così; praticando anapanasati sviluppiamo inizialmente resistenza e risentimento verso il respiro. È la stessa cosa che avviene ad un cavallo selvaggio che viene sellato per la prima volta: si rivolta contro chi lo lega.
Quando la mente divaga, ci turbiamo e ci scoraggiamo, sviluppando negatività ed avversione nei confronti di tutta la faccenda. Se per la frustrazione tentiamo di forzare la mente alla tranquillità, mediante un atto di volontà, possiamo farcela solo per un breve periodo di tempo, poi la mente se ne va di nuovo da qualche altra parte: così la giusta attitudine verso anapanasati è quella di una grande pazienza: prendiamoci tutto il tempo necessario e mettiamo da parte tutti i problemi mondani, personali o finanziari. In questo esercizio non c'è altro da fare che osservare il proprio respiro. Se la mente divaga sull'inalazione, mette allora più impegno sull'inalazione, se la mente divaga sull'esalazione, mettete allora più impegno sull'esalazione. Continuate a ritornare. Siate sempre pronti a ricominciare da capo. All'inizio di ogni nuovo giorno, all'inizio di ogni inalazione, coltivate la mente del principiante, non portate niente dal vecchio verso il nuovo, non lasciate tracce, come accade in un grande falò.
Inalazione: la mente divaga  e noi la riportiamo indietro. Questo è già di per sé un momento di presenza mentale. Osserviamo la mente esattamente come una buona madre educa il suo bambino. Un bambino piccolo non sa quel che fa, e se la madre si arrabbia con lui, lo sculaccia, lo picchia, il bambino si spaventa e diventa nevrotico. Una buona madre lascia il suo bambino, ma lo tiene d'occhio, intervenendo se si allontana. Con questo tipo di attitudine paziente non passiamo il tempo a danneggiarci, odiandoci, odiando il nostro respiro, odiando tutti, turbandoci perché non riusciamo a conseguire tranquillità con anapanasati.
Talvolta diventiamo troppo seri, privi di gioia, felicità e senso dello humour, e siamo capaci solo di reprimere tutto. Rallegrate la mente, sorridete! Siate rilassati ed a vostro agio, senza pensare di dover raggiungere qualcosa di speciale! Non c'è niente da raggiungere, niente di grande importanza, niente di speciale. E che cosa potete dire di aver fatto oggi per guadagnarvi il vostro vitto e alloggio? Solo un'inalazione consapevole? Pazzi! Questo è molto di più di quello che la maggior parte della gente può dire della propria giornata.

2. Noi non combattiamo le forze del male. Se provate avversione per anapanasati, notate anche questo. Non sentite che è qualcosa che dovete fare, lasciate che sia un piacere, qualcosa che amate veramente fare. Quando vi capita di pensare: «Non lo posso fare», riconoscete in questo una resistenza, una paura o una frustrazione, e poi rilassatevi. Non fate di questa pratica una cosa difficile, un compito opprimente. All'inizio della mia vita monastica ero assolutamente serio, molto arcigno e solenne verso me stesso, come un vecchio bastone asciutto, e solevo divenire terribilmente agitato pensando: «Devo… Devo…». Infine imparai a contemplare la pace. Dubbi ed inquietudine, scontentezza ed avversione: presto però fui in grado di riflettere sulla pace, ripetendo la parola tante volte, ipnotizzando me stesso per rilassarmi. Incominciarono a venirmi dubbi su di me: «Non sto conseguendo nulla, è tutto inutile; voglio ottenere qualcosa». Eppure ero in grado di essere in pace con tutto questo. È un sistema che potete usare. Quindi, quando siamo tesi, rilassiamoci, e poi riprendiamo anapanasati.
All'inizio ci sentiamo disperatamente goffi, come quando impariamo a suonare la chitarra. Quando cominciamo a suonare, dapprima le dita sono così maldestre che sembra non ci sia alcuna speranza; ma dopo un po' di pratica guadagniamo abilità e ci sembra proprio facile. Impariamo ad essere testimoni di ciò che sta succedendo nella nostra mente, in modo che possiamo essere consapevoli di quando stiamo diventando irrequieti, tesi o depressi. Riconosciamo ciò che accade, non cerchiamo di convincerci che le cose stiano diversamente, siamo pienamente consapevoli della natura di ciò che accade. Procuriamo di impegnarci per una inalazione. Se non siamo capaci di questo, proviamo allora ad impegnarci almeno per mezza inalazione. In tal modo non cerchiamo di diventare perfetti tutt'a un tratto. Non dobbiamo fare ogni cosa esattamente secondo l'idea di come dovrebbe essere; lavoriamo viceversa con i problemi che sono lì. Se la mente si disperde e divaga, è saggio riconoscerlo: questa è visione profonda. Pensare che non dovremmo essere così come siamo, odiare noi stessi o sentirci scoraggiati per come siamo, questa è ignoranza.
Noi non iniziamo dal punto in cui si trova uno yoga perfetto, non ci mettiamo a fare le posizioni Iyengar prima di essere in grado, piegandoci, di toccare le dita dei piedi. Quello è il modo di rovinarci. Possiamo guardare tutte le posizioni del volume Light on yoga, possiamo vedere Iyengar avvolgere le proprie gambe attorno al collo, o esibirsi nelle posizioni più incredibili. Ma se cerchiamo di fare altrettanto, ci porteranno all'ospedale. Iniziamo dunque con il piegarci un po' più in giù della vita, esaminiamo il dolore e la resistenza ad esso; impariamo ad allungarci gradatamente. È la stessa cosa con anapanasati: riconosciamo dove siamo e iniziamo da lì; sosteniamo l'attenzione un po' più a lungo e cominciamo a comprendere cos'è la concentrazione. Non prendete risoluzioni da Superman, quando Superman non siete. Vi dite: «Voglio sedermi e guardare il respiro tutta la notte», poi, non facendocela, vi arrabbiate. Impegnatevi per periodi che sapete di poter rispettare. Lavorate e scoprite quando e come rilassarvi, e quando e come impegnarvi.
Dobbiamo imparare a camminare cadendo. Guardate i bambini: non ne ho mai visto uno che fosse immediatamente capace di camminare. Essi imparano a camminare andando carponi, sostenendosi, cadendo e poi tirandosi su di nuovo. È la stessa cosa con la meditazione: impariamo la saggezza osservando l'ignoranza, facendo degli sbagli, riflettendo ed andando avanti. Se ci pensiamo su troppo, sembra che non ci sia speranza. Se i bambini riflettessero molto, non imparerebbero mai a camminare. Se osserviamo un bambino che cerca di camminare, sembra un caso disperato, non è vero? Se ci pensiamo su, la meditazione può sembrare completamente senza speranza, ma continuiamo a praticarla. È facile quando siamo pieni di entusiasmo, veramente ispirati dal maestro e dall'insegnamento. Ma entusiasmo ed ispirazione sono condizioni impermanenti, ci portano a disillusione e noia. Quando siamo annoiati ci dobbiamo veramente impegnare nella pratica; quando sopraggiunge la noia, abbiamo voglia di lasciare perdere e di rifarci con qualcosa di affascinante o di eccitante. Ma per conseguire visione profonda e saggezza, dobbiamo pazientemente sopportare l'abbassamento della delusione e della depressione. È solo in tal modo che possiamo romperla con i cicli dell'abitudine e giungere alla comprensione di cosa sia cessazione, alla conoscenza del silenzio e del vuoto della mente.
Se leggiamo dei libri sul non mettere impegno, sul lasciare che tutto vada e accada in modo naturale, spontaneo, ci viene da pensare che tutto ciò che dobbiamo fare è poltrire, e ci lasciamo andare ad uno stato di abbattimento passivo. Quando nella mia pratica cadevo in stati di depressione, mi resi conto ad un certo punto conto dell'importanza di mettere impegno nella posizione fisica. Tiravo su il corpo, mettevo il petto in fuori, impegnavo più energia nella posizione assisa, oppure tiravo su la testa o le spalle. Sebbene in principio non avessi una gran quantità di energia, ero pur capace di impegno. Imparavo a sostenere tale impegno per qualche secondo, poi mi perdevo di nuovo, ma questo era meglio di niente.

3.  Più prendiamo la strada facile, quella della minore resistenza, più seguiamo solo i nostri desideri, più la mente diventa sciatta, noncurante e confusa. È facile pensare, più facile sedersi e pensare che non dovremmo pensare: è un'abitudine acquisita. Perfino il pensiero «Non dovrei pensare», è solo un altro pensiero. Per evitare il pensiero dobbiamo essere consapevoli di esso, impegnandoci ad osservare e ascoltare, attenti al flusso della nostra mente. Invece di riflettere sulla mente, la osserviamo. Invece di essere esclusivamente impigliati nei pensieri, continuiamo a riconoscerli. Il pensiero è movimento, è energia, viene e va, non è una condizione permanente della mente. Quando semplicemente riconosciamo il pensiero come tale, esso comincia a rallentare e fermarsi. Non si tratta di annientamento, ma di permettere che le cose cessino: è compassione. Quando il pensare abitudinario ed ossessivo incomincia ad affievolirsi, grandi spazi, che non sapevamo fossero lì, incominciano ad apparire.
Rallentiamo tutto assorbendoci nel respiro naturale, calmando le formazioni karmiche. Questo è ciò che intendiamo con samatha o tranquillità: pervenire alla calma. La mente diventa malleabile, flessibile ed il respiro può diventare molto sottile. Portiamo avanti la pratica samatha fino ad upacara samadhi o concentrazione di vicinato: il nostro scopo non è l'assorbimento nell'oggetto per entrare in jhana. A questo punto siamo ancora consapevoli dell'oggetto e della sua periferia. Le caratteristiche estreme dell'agitazione mentale si sono attenuate considerevolmente, ma possiamo ancora funzionare usando saggezza. Con le nostre facoltà di discernimento ancora in funzione investighiamo, e questo è vipassana. Esaminiamo e contempliamo la natura di ogni cosa, così da sperimentare la sua impermanenza, dolorosità ed impersonalità. Aniccam, dukkham e anattam non sono astrazioni oggetto di fede, ma oggetti di osservazione e di esperienza. Investighiamo l'inizio di una inalazione e la sua fine. Osserviamo l'inizio, non riflettendo su di esso, ma osservando consapevoli con nuda attenzione l'inizio di una inalazione e la sua fine. Il corpo respira da sé, il respiro che entra condiziona il respiro che esce , ed il respiro che entra condiziona quello che entra: non possiamo controllare ogni cosa. Il respiro appartiene alla natura, non a noi, non è sé. Quando vediamo questo, facciamo vipassana.
Il tipo di conoscenza che otteniamo con la meditazione buddhista rende umili: Ajhan Chan la chiama la conoscenza del lombrico. È una conoscenza che non rende arroganti, che non inorgoglisce, non ti fa sentire qualcuno o che hai conseguito qualcosa. In termini mondani, questa non sembra una pratica molto importante o necessaria, nessuno scriverà mai su un giornale: «Alle otto di questa sera il Ven. Sumedho ha fatto un'inalazione!».
Per alcuni la cosa più importante è pensare di risolvere tutti i problemi del mondo, come aiutare gli abitanti del terzo mondo, come riparare ai guasti del mondo. Paragonato a tutto ciò, l'osservazione del respiro sembra proprio insignificante, e la maggior parte della gente penserà: «Perché sprecare il proprio tempo con queste cose?». Sono stato messo a confronto con questo problema e mi è stato chiesto: «Cosa fate voi monaci, seduti lì? Cosa fate per aiutare l'umanità? Siete solo degli egoisti: vi aspettate che la gente vi dia cibo, mentre state lì seduti ad osservare il respiro. State fuggendo dal mondo reale!». Ma qual è il mondo reale? Chi sta veramente fuggendo e da che cosa? Cos'è che è da affrontare? Troviamo che ciò che la gente chiama «mondo reale» è il mondo in cui crede, il mondo nel quale è coinvolta, il mondo che conosce e con il quale ha familiarità. Ma il mondo è una condizione della mente. La meditazione in verità consiste nell'affrontare il mondo reale, nel riconoscerlo e nel rendere atto di come veramente è, piuttosto che credere in esso, giustificarlo o cercare di annullarlo con la mente. Ora, il mondo reale opera sullo stesso modello del sorgere e del cadere del respiro. Siamo portati a teorizzare sulla natura delle cose, prendendo a prestito concezioni filosofiche altrui e cercando di razionalizzare. Ma se osserviamo il respiro, osserviamo in realtà la natura. Comprendendo la natura del respiro, possiamo comprendere la natura di tutti i fenomeni condizionati. Se cercassimo di comprendere tutti i fenomeni condizionati nella loro infinita varietà e qualità, i diversi cicli di tempo e così via, sarebbe troppo complesso, sarebbe superiore alle possibilità della nostra mente. Dobbiamo imparare dalla semplicità.

4.  Così, con una mente tranquilla, diveniamo consapevoli del modello ciclico, ci rendiamo conto che tutto ciò che sorge, passa e va. Tale ciclo è ciò che chiamiamo samsara, la ruota di nascita e morte. Osserviamo il ciclo samsarico del respiro: inaliamo ed esaliamo. Non possiamo fare solo inalazione o solo esalazioni; una cosa condiziona l'altra. Sarebbe assurdo pensare: «Voglio solo inalare. Non voglio esalare. La smetto con le esalazioni. La mia vita sarà una inalazione costante». Ciò sarebbe assolutamente ridicolo. Se andassi dicendo queste cose, voi pensereste che sono stupido. Eppure è ciò che la maggior parte della gente fa, quando vuole attaccarsi, quando vuole staccarsi solo a ciò che eccitante e piacevole, alla giovinezza, alla bellezza ed al vigore. «Voglio solo cose belle e non voglio avere a che fare con la bruttezza! Voglio piacere, delizie e creatività, ma non voglio alcuna noia o depressione!». È lo stesso genere di pazzia di uno che dicesse: «Non sopporto le inalazioni! Non ne voglio più!». Quando osserviamo che questo attaccamento alla bellezza ed ai piaceri sensuali porta sempre alla disperazione, la nostra attitudine diventa quella del distacco. Ciò non significa annullamento o un qualsiasi desiderio di distruzione, ma solo un lasciare andare, non attaccamento. Non cerchiamo la perfezione in una qualsiasi parte del ciclo, ma vediamo la perfezione nel ciclo intero, vecchiaia, malattia e morte incluse. Ciò che sorge nel non creato, raggiunge il suo culmine, e poi ritorna al non creato, questa è perfezione. Quando vediamo che tutte le sankhara [possono tradursi con “contenuti mentali” o anche “formazioni karmiche”] seguono questo modello, che cioè sorgono e passano via, incominciamo ad andare verso l'interno, verso il non condizionato, verso la pace della mente ed il suo silenzio. Incominciamo a sperimentare suññata o vuoto, che non è dimenticanza o annientamento, ma un silenzio chiaro e vibrante. Possiamo in realtà volgerci al vuoto invece che alle condizioni del respiro e della mente. Allora abbiamo una prospettiva delle condizioni e non reagiamo più ciecamente ad esse. Cosa è il condizionato, l'incondizionato ed il conoscere? È memoria? È consapevolezza? È me? Non sono mai stato capace di scoprirlo, ma posso essere consapevole. Nella meditazione buddhista stiamo con il conoscere, con l'essere vigilanti, realizzando Buddha nel presente, comprendendo che qualsiasi cosa che sorge, passa via e non è sé. Applichiamo questa conoscenza a ogni cosa, sia condizionata che incondizionata. Essere vigilanti è trascendere, invece che cercare di fuggire dalla realtà della vita di tutti i giorni.
Ci sono le quattro normali posizioni: sedere, stare ritti, camminare e stare sdraiati. Non dobbiamo stare ritti sulla testa o piegati all'indietro od altre cose di questo genere. Usiamo le quattro posizioni normali ed il respiro normale, perché ci stiamo muovendo verso ciò che è più normale: l'incondizionato. Le condizioni sono straordinarie. Ma la pace della mente, l'incondizionato è così normale che nessuno se ne accorge mai. È sempre lì, ma non lo notiamo mai perché siamo attaccati all'affascinante ed al misterioso. Ci facciamo intrappolare da cose che sorgono e passano via, da cose che stimolano e deprimono. Ci facciamo intrappolare dal modo in cui le cose sembrano essere, e dimentichiamo. Ma con la meditazione ritorniamo alla sorgente, alla pace, in quella posizione di conoscenza. Allora il mondo è compreso per quello che è, e non siamo più delusi da esso.
La realizzazione di Samsara è la condizione di Nibbana. Quando riconosciamo i cicli dell'abitudine e non siamo più delusi da essi o dalle loro qualità, realizziamo Nibbana. La conoscenza-Buddha consiste di sole due cose: il condizionato e il non condizionato. Si tratta del riconoscimento immediato come le cose sono di momento in momento, senza avidità o attaccamento. In questo momento possiamo essere consapevoli delle condizioni della mente, di sensazioni nel corpo, di ciò che vediamo, sentiamo, gustiamo, tocchiamo, adoriamo e pensiamo, ed anche del vuoto della mente. Il condizionato ed il non condizionato sono ciò che possiamo realizzare.
Così l'insegnamento del Buddha è un insegnamento molto diretto. La nostra pratica non è per diventare illuminati, ma per essere nella conoscenza ora.

© Amaravati Publications 1987
(Traduzione dall'inglese di Mariuccia Sapio)

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