giovedì 26 dicembre 2019

LA CULTURA DIGITALE MINACCIA ANCHE IL NATALE



Sul Natale, su che cosa rappresenta per una gran parte dell'umanità e su come viene vissuto ormai a livello planetario, ecco di seguito l'interessante opinione del giornalista e scrittore Corrado Augias, raccolta dal blogger Nicola Mirenzi in un'intervista pubblicata su Huffingtonpost Italia, che mi sembra davvero utile leggere per una profonda riflessione. Tra alcuni anni, potremmo anche dimenticarci cosa stiamo festeggiando a Natale: “Per esempio, quasi nessuno ricorda più che il primo dell’anno, il giorno – anzi, la notte – del veglione, dei brindisi, degli auguri, dei fuochi d’artificio, nel calendario sacro è il giorno nel quale si celebra la circoncisione di Gesù. Quanti sono quelli che oggi lo festeggiano per questo?”
Da anni, Corrado Augias – scrittore e giornalista – studia e racconta le figure, le storie e i simboli della religione cristiana, pur essendo egli un laico e un non credente. Alla materia, ha dedicato vari libri, l’ultimo dei quali è Il grande romanzo dei Vangeli (Einaudi), scritto insieme allo storico del cristianesimo Giovanni Filoramo. Come è successo al capodanno, Augias teme che anche il Natale, prima o poi, possa prosciugarsi completamente del suo senso spirituale: “Io apprezzo il Natale, anche al di là del suo significato religioso. Mi piace il presepe. Sono attratto dai suoi personaggi, da Giuseppe e Maria, fino all’ultimo pastorello. Le loro storie sono storie che vanno raccontate. Ciò che detesto, invece, è la deriva consumistica del Natale, che credo andrebbe contrastata anche a costo di farsi nemici i commercianti che, in questi giorni, incrementano considerevolmente il proprio fatturato”.

Augias, ma se alla nascita di Cristo togliamo Dio, non è inevitabile che accada?
Nient’affatto. La figura di Gesù è grandiosa, anche se si fa a meno della teologia. Cristo è un profeta. È l’annunciatore di una spiritualità nuova. È una figura drammatica. Il suo messaggio è rivoluzionario, a tratti utopistico. Considerarlo semplicemente un uomo non toglie nulla alla sua figura. Al contrario, rende ancora più notevole ciò che ha fatto.

Cioè?
Cristo sfida le più grandi autorità del tempo, il potere dell’Impero romano e quello dei sacerdoti del suo tempo, sapendo che lo uccideranno. Il suo sacrificio segue la dinamica del capro espiatorio. Per questo, è l’agnello di Dio. Ora: se noi consideriamo Cristo allo stesso tempo Dio e uomo, sappiamo che come uomo morirà, mentre come Dio sopravviverà; se, invece, noi lo consideriamo come uomo soltanto, il suo sacrificio risulterà ancora più potente. Perché, per testimoniare il suo messaggio, egli ha messo in gioco tutto se stesso. Letteralmente.

E cosa ci dice di non religioso?
Ci dà una visione del mondo, una testimonianza che può essere meditata da chiunque, anche da chi non crede. Credo che, in una fase storica come quella che viviamo, in cui sono scomparsi tutti i punti di riferimento politici, ideologici, morali e giuridici, le scritture sacre possano essere lette alla ricerca non delle verità, ma di un senso.

Leggo Marco: “Va’, vendi quello che hai e dàllo ai poveri; poi vieni e seguimi”. Secondo lei, un messaggio così radicale è veramente compatibile con il nostro mondo?
Forse, non è possibile essere veramente cristiani. Però, è possibile il tentativo di essere cristiani. Gli obiettivi che Gesù Cristo indica sono irraggiungibili e utopici. Non è vero che i miti erediteranno la terra. Eppure, dopo la profezia di Cristo, noi sappiamo che anche quella possibilità esiste. E che ad essa possiamo tendere.

Anche il Natale dovrebbe recuperare l’utopia?
Nel mondo occidentale, non credo sia più possibile. La religiosità cristiana è diventata marginale. E non so se anche i cattolici che vanno a messa la notte di Natale ci vadano per entrare in contatto con l’avvento della radicalità del messaggio cristiano, oppure se prevalga anche in essi l’aspetto rituale e liturgico. I valori spirituali del Natale sono ridotti oggi, nei casi migliori, all’affetto familiare e ai regali. Che va bene, intendiamoci. Ma il mio timore è che con il progredire della cultura digitale, la storia di Cristo, come la storia di molti altri miti, avrà un posto sempre più piccolo nella nostra vita.

Fanno bene allora quei leader, come per esempio Salvini, che insistono sull’identità cristiana per opporsi proprio a questo?
Trovo blasfemo che un richiamo spirituale sia mescolato, anche parzialmente, a un messaggio politico. Mi dà pena e provo fastidio, che lo faccia Salvini, come ha fatto, oppure che lo faccia chiunque altro. La spiritualità è una dimensione che si coltiva di nascosto, da soli con se stessi. Nel momento in cui viene esposta in piazza, si inquina.

Lei cosa festeggia a Natale?
Faccio mio il canto che gli angeli elevano a Dio quando nasce Gesù: “Pace in terra agli uomini di buona volontà”. Credo sia una frase magnifica. Racchiude un messaggio universale, che vale per tutti: cattolici e laici.

mercoledì 26 giugno 2019

SIAMO NEL 2019 O NEL MEDIOEVO? DUE STORIE SU CUI RIFLETTERE

Leggo su due quotidiani altrettante storie che ci riportano indietro nel tempo… a qualche secolo fa. Storie che parlano di pregiudizi, per non dire superstizioni. Duri a morire. Mi hanno fatto venire i brividi. Li riporto integralmente, ovviamente con la citazione della fonte.
Cominciamo con la prima. Titola Huffingtonpost.it del 26/6/2019: «Rapiscono il figlio omosessuale e da Padova lo portano in Bulgaria per “rieducarlo”». Sommario: «Mamma, papà e un amico di famiglia organizzano l'operazione: ora rischiano il processo per sequestro di persona». Rischiano? Riflessione mia: In Italia si usano tante cautele nel parlare di persone che si sono macchiate di un delitto, sarebbe bene che si puntasse di più il dito contro di loro quando c'è la certezza che abbiamo commesso l'illecito, al di là della sentenza del processo. La giustizia italiana è troppo permissiva. Comunque ecco di seguito l'articolo senza firma.


«Si amavano, tanto. Ma non tutti vivevano serenamente la loro relazione. E per la famiglia di uno di loro era una “brutta faccenda”, da negare con violenza, stroncare, combattere. È la storia di amore gay di due ragazzi, osteggiata profondamente dalla famiglia di uno dei due.
I genitori così hanno tentato di rapire il figlio D., con il sostegno di un amico, e trasferirlo a forza da Padova, la città in cui studiava e viveva, in una località in Bulgaria sul mar Nero, in casa di alcuni parenti. Tre erano gli obiettivi: allontanarlo dal fidanzato N.: con il quale condivideva l'appartamento assieme ad altri due studenti; lavare l'onta che aveva macchiato la famiglia: tentare di “rieducarlo”. La storia, che risale a quattro anni fa e solo ora arriva a processo, è stata raccontata da Il Mattino di Padova.Ora la coppia di genitori di origine bulgara, ma residente nel Veronese, e l'amico che li ha aiutati rischiano il processo. Il pubblico ministero padovano Sergio Dini ha chiuso l'inchiesta e si prepara a sollecitare il giudizio nei confronti della madre e del padre della vittima, entrambi 44enni, con casa a San Giovanni Lupatoto, e dell'amico di origine serba, 41enne che vive a lavora a Lonigo. Sono molto gravi le accuse: sequestro di persona aggravata, violenza privata e lesioni personali, sempre aggravate e continuate.
È solo una coincidenza l'incontro dei due giovani gay nell'appartamento dove alloggiano assieme ad altri due universitari. Subito si trovano simpatici. Si piacciono. E scoprono anche di amarsi, vivendo quel legame affettivo omosessuale con gioia.All'inizio la famiglia del ragazzo bulgaro non vede o finge di non accorgersi. Poi, incapace di accettare la situazione, decide di    
intervenire. A modo suo: Sul 16 maggio di quattro anni fa i genitori di D. i genitori si presentano nell'appartamento a Padova scortati dall'amico. Il figlio apre la porta di casa, ignaro della trappola.
Il terzetto piomba nell'abitazione dove i due compagni si trovano soli.
L?aggressione è rapida e feroce. N. viene costretto a restare fermo in un angolo per evitare che possa scappare e chiedere aiuto. Quando tenta di intervenire a favore di D:, è minacciato di morte e colpito in pieno volto da un pugno che gli provoca lesioni guaribili in sei giorni. Nel frattempo D. è immobilizzato, trascinato giù dalle scale della palazzina e caricato a bordo di un'auto che sguscia via a tutta velocità».

Da allora del giovane non si sono più avute per tanto tempo. Né è noto in che modo i genitori pensassero di poterlo “rieducare” e convertirlo in “etero”. Per fortuna, alla fine tutta la brutta storia è venuta a galla, e adesso il tentativo di “rieducazione” con le maniere forti, anzi disumane, assurde e inconcepibili, avrà, si spera, la giusta ed esemplare punizione.

La seconda storia riguarda invece la “sfida” al divieto delle autorità francesi da parte di alcune donne musulmane che in una piscina pubblica della città di Grenoble si sono immerse nella vasca intabarrate nel loro burkini, simbolo religioso che non può essere ammesso nella vita pubblica (e giustamente laica) del Paese d'Oltralpe. Riporto il breve pezzo di La Repubblica del 26/6/2019:

«A Grenoble, in Francia, un gruppo di donne musulmane ha manifestato in piscina a favore del burkini, il costume da bagno in linea con i dettami islamici che copre tutto il corpo lasciando scoperti solo mani, piedi e viso. Le donne si sono presentate in piscina con il burkini e nonostante i richiami dei bagnini conto l'indumento vietato hanno fatto il bagno per circa un'ora in mezzo agli altri ospiti della struttura, mentre molti di loro tifavano per le attiviste. Molte piscine in Francia lo proibiscono considerandolo un simbolo religioso islamico, contrario alla laicità dello Stato. Alla protesta hanno aderito i membri della Alleanza cittadina di Grenoble, scesi in campo per difendere quello che viene considerato un diritto delle donne musulmane».

Da La Repubblica ci si potrebbe aspettare qualcosa diverso da un'esultante difesa dei costumi islamici e dell'immigrazione islamica in Europa e nel nostro Paese?.
Peccato che il diritto e la libertà di ciascuno finiscono dove cominciano il diritto e la libertà di qualcun altro. Se vogliono indossare il burkini, magari le signore musulmane farebbero meglio a frequentare le piscine private di qualche loro correlegionario benestante, senza infrangere le leggi, provocare e infastidire chi ha abbracciato altre religioni e non ama le brutte e minacciose palandrane di cui si addobbano, in piscina come in strada. Siamo in Europa, bellezze! Palandrane e veli a casa vostra!


lunedì 10 giugno 2019

SE OSSERVIAMO IL RESPIRO, OSSERVIAMO IN REALTÀ LA NATURA: GLI INSEGNAMENTI DI AJAHN SUMEDHO


Mi piace l'idea di condividere questo bellissimo insegnamento del Reverendo monaco buddhista di origine statunitense Ajahn Sumedho (nato come Robert Jackman), ricco di concetti illuminanti per chi tenta di percorrere la via verso il risveglio. Si parla della tecnica della osservazione del respiro, considerandolo nelle difficoltà che sempre si presentano al meditatore, come le inarrestabili divagazioni della mente, che vanno considerate delle opportunità e non degli ostacoli alla meditazione. Sumedho, che rappresenta in Occidente la tradizione thailandese dei monaci della foresta del Buddhismo Teravada, mette poi in relazione inalazione ed esalazione con i cicli naturali di vita e morte, condizioni che il saggio accetta e rispetta perché, se visti alla luce della vera conoscenza, parlano di perfezione. Un vero piccolo trattato, che chiarisce molte idee a chi crede di non essere adatto alla meditazione. È tutta questione di pazienza, amore e accoglienza verso i pensieri che sorgono in continuazione nella nostra mente e la ricerca caparbia, ma senza aspettative, della pace e del silenzio profondo che vi è associato. Lo scritto di Sumedho è tratto dal volumetto Psicoterapia e Meditazione, a cura di Adalberto Bonecchi, Oscar Mondadori, Milano 1991.  


1.  Abbiamo la tendenza a svalutare ciò che è ordinario. Siamo in genere consapevoli del respiro quando non è in condizione di normalità, come quando abbiamo l'asma o abbiamo corso a lungo. Ma con anapanasati (parola sanscrita che significa: attenzione concentrata sul respiro) prendiamo il nostro respiro ordinario come oggetto di meditazione. Non cerchiamo di forzare il respiro rendendolo lungo o corto, né di controllarlo in qualche modo, cerchiamo solo di stare con la inalazione e l'esalazione normali. Il respiro non è qualcosa di immaginario, ma un processo naturale che ha luogo nel nostro corpo, e che va avanti per tutta la vita, che ci concentriamo o meno su di esso. È quindi un fenomeno sempre presente e possiamo rivolgerci ad esso in qualunque momento. Non è necessaria alcuna speciale qualifica per osservare il respiro, non è neppure necessaria una speciale intelligenza. Tutto ciò che dobbiamo fare è essere consapevoli di ogni inalazione e di ogni esalazione. La saggezza non deriva dallo studio di grandi teorie filosofiche, ma dall'osservazione dell'ordinario.
Il respiro è privo di caratteristiche che possano eccitarci o affascinarci, che possano suscitare in noi avversione o irrequietezza nei suoi confronti. Desideriamo sempre di ottenere qualcosa, di trovare qualcosa che ci interessi e ci assorba senza sforzo alcuno da parte nostra. Ascoltando della musica non ci viene da pensare: «Devo concentrarmi su questa musica ritmica, così affascinante ed eccitante!», il ritmo, così irresistibile, ci tira dentro di per sé. Il ritmo del nostro respiro normale non è interessante ed irresistibile, ma tranquillizzante, e la maggior parte di noi non è abituata alla tranquillità. Alla maggior parte di noi in effetti non piace la pace, anzi l'effettiva esperienza di essa viene trovata deludente e frustrante. Desideriamo stimoli, qualcosa che ci attiri. Anapanasati ci fa stare con un oggetto piuttosto neutrale. Non nutriamo alcun sentimento potente di piacere o di dispiacere nei confronti del nostro respiro: tutto ciò che dobbiamo fare è notare l'inizio di una inalazione, la sua parte mediana e la sua fine; poi l'inizio di una esalazione, la sua parte mediana e la sua fine. Il ritmo gentile del respiro, più lento del ritmo del pensiero, apporta tranquillità, incominciamo a smettere di pensare. Ma non cerchiamo di ottenere qualcosa dalla meditazione, di ottenere samadhi o di ottenere jhana, perché se la mente si prefigge il conseguimento di qualcosa, invece dell'umile soddisfazione del respirare, allora non c'è più alcun rallentamento e non subentra alcuna calma, e diveniamo frustrati.
Da principio la mente divaga. Quando ci rendiamo conto di essere distratti molto gentilmente torniamo al respiro. Sviluppiamo l'attitudine ad essere molto pazienti e sempre pronti a ricominciare da capo. La nostra mente non è abituata ad essere controllata; è stata istruita ad associare una cosa con un'altra e a formarsi opinioni riguardo a tutto. Siamo abituati ad usare la nostra intelligenza ed abilità in modi di pensiero astuti, ed abbiamo la tendenza a diventare molto irrequieti e tesi se non possiamo fare così; praticando anapanasati sviluppiamo inizialmente resistenza e risentimento verso il respiro. È la stessa cosa che avviene ad un cavallo selvaggio che viene sellato per la prima volta: si rivolta contro chi lo lega.
Quando la mente divaga, ci turbiamo e ci scoraggiamo, sviluppando negatività ed avversione nei confronti di tutta la faccenda. Se per la frustrazione tentiamo di forzare la mente alla tranquillità, mediante un atto di volontà, possiamo farcela solo per un breve periodo di tempo, poi la mente se ne va di nuovo da qualche altra parte: così la giusta attitudine verso anapanasati è quella di una grande pazienza: prendiamoci tutto il tempo necessario e mettiamo da parte tutti i problemi mondani, personali o finanziari. In questo esercizio non c'è altro da fare che osservare il proprio respiro. Se la mente divaga sull'inalazione, mette allora più impegno sull'inalazione, se la mente divaga sull'esalazione, mettete allora più impegno sull'esalazione. Continuate a ritornare. Siate sempre pronti a ricominciare da capo. All'inizio di ogni nuovo giorno, all'inizio di ogni inalazione, coltivate la mente del principiante, non portate niente dal vecchio verso il nuovo, non lasciate tracce, come accade in un grande falò.
Inalazione: la mente divaga  e noi la riportiamo indietro. Questo è già di per sé un momento di presenza mentale. Osserviamo la mente esattamente come una buona madre educa il suo bambino. Un bambino piccolo non sa quel che fa, e se la madre si arrabbia con lui, lo sculaccia, lo picchia, il bambino si spaventa e diventa nevrotico. Una buona madre lascia il suo bambino, ma lo tiene d'occhio, intervenendo se si allontana. Con questo tipo di attitudine paziente non passiamo il tempo a danneggiarci, odiandoci, odiando il nostro respiro, odiando tutti, turbandoci perché non riusciamo a conseguire tranquillità con anapanasati.
Talvolta diventiamo troppo seri, privi di gioia, felicità e senso dello humour, e siamo capaci solo di reprimere tutto. Rallegrate la mente, sorridete! Siate rilassati ed a vostro agio, senza pensare di dover raggiungere qualcosa di speciale! Non c'è niente da raggiungere, niente di grande importanza, niente di speciale. E che cosa potete dire di aver fatto oggi per guadagnarvi il vostro vitto e alloggio? Solo un'inalazione consapevole? Pazzi! Questo è molto di più di quello che la maggior parte della gente può dire della propria giornata.

2. Noi non combattiamo le forze del male. Se provate avversione per anapanasati, notate anche questo. Non sentite che è qualcosa che dovete fare, lasciate che sia un piacere, qualcosa che amate veramente fare. Quando vi capita di pensare: «Non lo posso fare», riconoscete in questo una resistenza, una paura o una frustrazione, e poi rilassatevi. Non fate di questa pratica una cosa difficile, un compito opprimente. All'inizio della mia vita monastica ero assolutamente serio, molto arcigno e solenne verso me stesso, come un vecchio bastone asciutto, e solevo divenire terribilmente agitato pensando: «Devo… Devo…». Infine imparai a contemplare la pace. Dubbi ed inquietudine, scontentezza ed avversione: presto però fui in grado di riflettere sulla pace, ripetendo la parola tante volte, ipnotizzando me stesso per rilassarmi. Incominciarono a venirmi dubbi su di me: «Non sto conseguendo nulla, è tutto inutile; voglio ottenere qualcosa». Eppure ero in grado di essere in pace con tutto questo. È un sistema che potete usare. Quindi, quando siamo tesi, rilassiamoci, e poi riprendiamo anapanasati.
All'inizio ci sentiamo disperatamente goffi, come quando impariamo a suonare la chitarra. Quando cominciamo a suonare, dapprima le dita sono così maldestre che sembra non ci sia alcuna speranza; ma dopo un po' di pratica guadagniamo abilità e ci sembra proprio facile. Impariamo ad essere testimoni di ciò che sta succedendo nella nostra mente, in modo che possiamo essere consapevoli di quando stiamo diventando irrequieti, tesi o depressi. Riconosciamo ciò che accade, non cerchiamo di convincerci che le cose stiano diversamente, siamo pienamente consapevoli della natura di ciò che accade. Procuriamo di impegnarci per una inalazione. Se non siamo capaci di questo, proviamo allora ad impegnarci almeno per mezza inalazione. In tal modo non cerchiamo di diventare perfetti tutt'a un tratto. Non dobbiamo fare ogni cosa esattamente secondo l'idea di come dovrebbe essere; lavoriamo viceversa con i problemi che sono lì. Se la mente si disperde e divaga, è saggio riconoscerlo: questa è visione profonda. Pensare che non dovremmo essere così come siamo, odiare noi stessi o sentirci scoraggiati per come siamo, questa è ignoranza.
Noi non iniziamo dal punto in cui si trova uno yoga perfetto, non ci mettiamo a fare le posizioni Iyengar prima di essere in grado, piegandoci, di toccare le dita dei piedi. Quello è il modo di rovinarci. Possiamo guardare tutte le posizioni del volume Light on yoga, possiamo vedere Iyengar avvolgere le proprie gambe attorno al collo, o esibirsi nelle posizioni più incredibili. Ma se cerchiamo di fare altrettanto, ci porteranno all'ospedale. Iniziamo dunque con il piegarci un po' più in giù della vita, esaminiamo il dolore e la resistenza ad esso; impariamo ad allungarci gradatamente. È la stessa cosa con anapanasati: riconosciamo dove siamo e iniziamo da lì; sosteniamo l'attenzione un po' più a lungo e cominciamo a comprendere cos'è la concentrazione. Non prendete risoluzioni da Superman, quando Superman non siete. Vi dite: «Voglio sedermi e guardare il respiro tutta la notte», poi, non facendocela, vi arrabbiate. Impegnatevi per periodi che sapete di poter rispettare. Lavorate e scoprite quando e come rilassarvi, e quando e come impegnarvi.
Dobbiamo imparare a camminare cadendo. Guardate i bambini: non ne ho mai visto uno che fosse immediatamente capace di camminare. Essi imparano a camminare andando carponi, sostenendosi, cadendo e poi tirandosi su di nuovo. È la stessa cosa con la meditazione: impariamo la saggezza osservando l'ignoranza, facendo degli sbagli, riflettendo ed andando avanti. Se ci pensiamo su troppo, sembra che non ci sia speranza. Se i bambini riflettessero molto, non imparerebbero mai a camminare. Se osserviamo un bambino che cerca di camminare, sembra un caso disperato, non è vero? Se ci pensiamo su, la meditazione può sembrare completamente senza speranza, ma continuiamo a praticarla. È facile quando siamo pieni di entusiasmo, veramente ispirati dal maestro e dall'insegnamento. Ma entusiasmo ed ispirazione sono condizioni impermanenti, ci portano a disillusione e noia. Quando siamo annoiati ci dobbiamo veramente impegnare nella pratica; quando sopraggiunge la noia, abbiamo voglia di lasciare perdere e di rifarci con qualcosa di affascinante o di eccitante. Ma per conseguire visione profonda e saggezza, dobbiamo pazientemente sopportare l'abbassamento della delusione e della depressione. È solo in tal modo che possiamo romperla con i cicli dell'abitudine e giungere alla comprensione di cosa sia cessazione, alla conoscenza del silenzio e del vuoto della mente.
Se leggiamo dei libri sul non mettere impegno, sul lasciare che tutto vada e accada in modo naturale, spontaneo, ci viene da pensare che tutto ciò che dobbiamo fare è poltrire, e ci lasciamo andare ad uno stato di abbattimento passivo. Quando nella mia pratica cadevo in stati di depressione, mi resi conto ad un certo punto conto dell'importanza di mettere impegno nella posizione fisica. Tiravo su il corpo, mettevo il petto in fuori, impegnavo più energia nella posizione assisa, oppure tiravo su la testa o le spalle. Sebbene in principio non avessi una gran quantità di energia, ero pur capace di impegno. Imparavo a sostenere tale impegno per qualche secondo, poi mi perdevo di nuovo, ma questo era meglio di niente.

3.  Più prendiamo la strada facile, quella della minore resistenza, più seguiamo solo i nostri desideri, più la mente diventa sciatta, noncurante e confusa. È facile pensare, più facile sedersi e pensare che non dovremmo pensare: è un'abitudine acquisita. Perfino il pensiero «Non dovrei pensare», è solo un altro pensiero. Per evitare il pensiero dobbiamo essere consapevoli di esso, impegnandoci ad osservare e ascoltare, attenti al flusso della nostra mente. Invece di riflettere sulla mente, la osserviamo. Invece di essere esclusivamente impigliati nei pensieri, continuiamo a riconoscerli. Il pensiero è movimento, è energia, viene e va, non è una condizione permanente della mente. Quando semplicemente riconosciamo il pensiero come tale, esso comincia a rallentare e fermarsi. Non si tratta di annientamento, ma di permettere che le cose cessino: è compassione. Quando il pensare abitudinario ed ossessivo incomincia ad affievolirsi, grandi spazi, che non sapevamo fossero lì, incominciano ad apparire.
Rallentiamo tutto assorbendoci nel respiro naturale, calmando le formazioni karmiche. Questo è ciò che intendiamo con samatha o tranquillità: pervenire alla calma. La mente diventa malleabile, flessibile ed il respiro può diventare molto sottile. Portiamo avanti la pratica samatha fino ad upacara samadhi o concentrazione di vicinato: il nostro scopo non è l'assorbimento nell'oggetto per entrare in jhana. A questo punto siamo ancora consapevoli dell'oggetto e della sua periferia. Le caratteristiche estreme dell'agitazione mentale si sono attenuate considerevolmente, ma possiamo ancora funzionare usando saggezza. Con le nostre facoltà di discernimento ancora in funzione investighiamo, e questo è vipassana. Esaminiamo e contempliamo la natura di ogni cosa, così da sperimentare la sua impermanenza, dolorosità ed impersonalità. Aniccam, dukkham e anattam non sono astrazioni oggetto di fede, ma oggetti di osservazione e di esperienza. Investighiamo l'inizio di una inalazione e la sua fine. Osserviamo l'inizio, non riflettendo su di esso, ma osservando consapevoli con nuda attenzione l'inizio di una inalazione e la sua fine. Il corpo respira da sé, il respiro che entra condiziona il respiro che esce , ed il respiro che entra condiziona quello che entra: non possiamo controllare ogni cosa. Il respiro appartiene alla natura, non a noi, non è sé. Quando vediamo questo, facciamo vipassana.
Il tipo di conoscenza che otteniamo con la meditazione buddhista rende umili: Ajhan Chan la chiama la conoscenza del lombrico. È una conoscenza che non rende arroganti, che non inorgoglisce, non ti fa sentire qualcuno o che hai conseguito qualcosa. In termini mondani, questa non sembra una pratica molto importante o necessaria, nessuno scriverà mai su un giornale: «Alle otto di questa sera il Ven. Sumedho ha fatto un'inalazione!».
Per alcuni la cosa più importante è pensare di risolvere tutti i problemi del mondo, come aiutare gli abitanti del terzo mondo, come riparare ai guasti del mondo. Paragonato a tutto ciò, l'osservazione del respiro sembra proprio insignificante, e la maggior parte della gente penserà: «Perché sprecare il proprio tempo con queste cose?». Sono stato messo a confronto con questo problema e mi è stato chiesto: «Cosa fate voi monaci, seduti lì? Cosa fate per aiutare l'umanità? Siete solo degli egoisti: vi aspettate che la gente vi dia cibo, mentre state lì seduti ad osservare il respiro. State fuggendo dal mondo reale!». Ma qual è il mondo reale? Chi sta veramente fuggendo e da che cosa? Cos'è che è da affrontare? Troviamo che ciò che la gente chiama «mondo reale» è il mondo in cui crede, il mondo nel quale è coinvolta, il mondo che conosce e con il quale ha familiarità. Ma il mondo è una condizione della mente. La meditazione in verità consiste nell'affrontare il mondo reale, nel riconoscerlo e nel rendere atto di come veramente è, piuttosto che credere in esso, giustificarlo o cercare di annullarlo con la mente. Ora, il mondo reale opera sullo stesso modello del sorgere e del cadere del respiro. Siamo portati a teorizzare sulla natura delle cose, prendendo a prestito concezioni filosofiche altrui e cercando di razionalizzare. Ma se osserviamo il respiro, osserviamo in realtà la natura. Comprendendo la natura del respiro, possiamo comprendere la natura di tutti i fenomeni condizionati. Se cercassimo di comprendere tutti i fenomeni condizionati nella loro infinita varietà e qualità, i diversi cicli di tempo e così via, sarebbe troppo complesso, sarebbe superiore alle possibilità della nostra mente. Dobbiamo imparare dalla semplicità.

4.  Così, con una mente tranquilla, diveniamo consapevoli del modello ciclico, ci rendiamo conto che tutto ciò che sorge, passa e va. Tale ciclo è ciò che chiamiamo samsara, la ruota di nascita e morte. Osserviamo il ciclo samsarico del respiro: inaliamo ed esaliamo. Non possiamo fare solo inalazione o solo esalazioni; una cosa condiziona l'altra. Sarebbe assurdo pensare: «Voglio solo inalare. Non voglio esalare. La smetto con le esalazioni. La mia vita sarà una inalazione costante». Ciò sarebbe assolutamente ridicolo. Se andassi dicendo queste cose, voi pensereste che sono stupido. Eppure è ciò che la maggior parte della gente fa, quando vuole attaccarsi, quando vuole staccarsi solo a ciò che eccitante e piacevole, alla giovinezza, alla bellezza ed al vigore. «Voglio solo cose belle e non voglio avere a che fare con la bruttezza! Voglio piacere, delizie e creatività, ma non voglio alcuna noia o depressione!». È lo stesso genere di pazzia di uno che dicesse: «Non sopporto le inalazioni! Non ne voglio più!». Quando osserviamo che questo attaccamento alla bellezza ed ai piaceri sensuali porta sempre alla disperazione, la nostra attitudine diventa quella del distacco. Ciò non significa annullamento o un qualsiasi desiderio di distruzione, ma solo un lasciare andare, non attaccamento. Non cerchiamo la perfezione in una qualsiasi parte del ciclo, ma vediamo la perfezione nel ciclo intero, vecchiaia, malattia e morte incluse. Ciò che sorge nel non creato, raggiunge il suo culmine, e poi ritorna al non creato, questa è perfezione. Quando vediamo che tutte le sankhara [possono tradursi con “contenuti mentali” o anche “formazioni karmiche”] seguono questo modello, che cioè sorgono e passano via, incominciamo ad andare verso l'interno, verso il non condizionato, verso la pace della mente ed il suo silenzio. Incominciamo a sperimentare suññata o vuoto, che non è dimenticanza o annientamento, ma un silenzio chiaro e vibrante. Possiamo in realtà volgerci al vuoto invece che alle condizioni del respiro e della mente. Allora abbiamo una prospettiva delle condizioni e non reagiamo più ciecamente ad esse. Cosa è il condizionato, l'incondizionato ed il conoscere? È memoria? È consapevolezza? È me? Non sono mai stato capace di scoprirlo, ma posso essere consapevole. Nella meditazione buddhista stiamo con il conoscere, con l'essere vigilanti, realizzando Buddha nel presente, comprendendo che qualsiasi cosa che sorge, passa via e non è sé. Applichiamo questa conoscenza a ogni cosa, sia condizionata che incondizionata. Essere vigilanti è trascendere, invece che cercare di fuggire dalla realtà della vita di tutti i giorni.
Ci sono le quattro normali posizioni: sedere, stare ritti, camminare e stare sdraiati. Non dobbiamo stare ritti sulla testa o piegati all'indietro od altre cose di questo genere. Usiamo le quattro posizioni normali ed il respiro normale, perché ci stiamo muovendo verso ciò che è più normale: l'incondizionato. Le condizioni sono straordinarie. Ma la pace della mente, l'incondizionato è così normale che nessuno se ne accorge mai. È sempre lì, ma non lo notiamo mai perché siamo attaccati all'affascinante ed al misterioso. Ci facciamo intrappolare da cose che sorgono e passano via, da cose che stimolano e deprimono. Ci facciamo intrappolare dal modo in cui le cose sembrano essere, e dimentichiamo. Ma con la meditazione ritorniamo alla sorgente, alla pace, in quella posizione di conoscenza. Allora il mondo è compreso per quello che è, e non siamo più delusi da esso.
La realizzazione di Samsara è la condizione di Nibbana. Quando riconosciamo i cicli dell'abitudine e non siamo più delusi da essi o dalle loro qualità, realizziamo Nibbana. La conoscenza-Buddha consiste di sole due cose: il condizionato e il non condizionato. Si tratta del riconoscimento immediato come le cose sono di momento in momento, senza avidità o attaccamento. In questo momento possiamo essere consapevoli delle condizioni della mente, di sensazioni nel corpo, di ciò che vediamo, sentiamo, gustiamo, tocchiamo, adoriamo e pensiamo, ed anche del vuoto della mente. Il condizionato ed il non condizionato sono ciò che possiamo realizzare.
Così l'insegnamento del Buddha è un insegnamento molto diretto. La nostra pratica non è per diventare illuminati, ma per essere nella conoscenza ora.

© Amaravati Publications 1987
(Traduzione dall'inglese di Mariuccia Sapio)

sabato 8 giugno 2019

UMBRIA: IL DOTTORE CHE REGISTRA “LA VOCE” DEGLI ALBERI E LA FA ASCOLTARE AI RAGAZZI



Mi ha colpito molto l'articolo de ilfattoquotidiano.it che riporto qui integralmente:

Immaginate di poter ascoltare gli alberi. Di poter sentire la loro “voce” tradotta in suoni e di poter ricevere da loro dei “whatsapp” a tutte le ore per sapere se hanno abbastanza luce o acqua. Capire, insomma, in poco tempo se sono sotto stress o se, invece, sono in forma. È l’obiettivo del progetto Trace (acronimo di Tree monitoring to support climate Adaptation and mitigation through PEFC Certification), messo in piedi da Antonio Brunori, segretario generale del Pefc Italia, e dal CMCC (Centro euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici), iniziato su una trentina di alberi in Umbria, a ottobre 2018. Una ricerca che, in occasione del KIDSBIT, il Festival europeo sulla creatività digitale che si svolgerà a Perugia l’8 e il 9 giugno, il “dottore degli alberi”, Brunori, trasformerà in uno spettacolo di suoni e colori, rivolto a bambini e ragazzi, ma, dice lui “anche ai genitori”, visto che sono proprio gli adulti di oggi “responsabili di ciò che sta accadendo”.
“Un giorno i miei due figli mi hanno chiesto ‘papà che ti dicono gli alberi?’ – racconta il dottore forestale a ilfattoquotidiano.it – Così ho iniziato a trasformare le informazioni ecofisiologiche che ci mandavano, come la luce necessaria alla fotosintesi o il ritmo di crescita del tronco, in suoni”. La volontà è quella di far capire alle future generazioni l’importanza di un bosco ben gestito, ascoltato, preparato ai cambiamenti climatici che inevitabilmente dovrà affrontare, ed aiutato ad adattarsi. “Faremo sentire la loro ‘voce’ in condizioni ordinarie, e poi in condizioni stressanti, come in questi giorni – continua Brunori – Non parleremo in termini di neurobiologia vegetale, ma in termini di sensazioni. Si percepisce il loro malessere”. Anche il pubblico ovviamente è importante. “I giovani sanno che tutto ciò che succede intorno a noi dipende da noi e che non c’è più tempo. Chiederò loro scusa per il mondo che stiamo lasciando in eredità”. La conferenza inizierà proprio con un’immagine di Greta Thunberg, la sedicenne attivista svedese che da mesi gira il mondo per sensibilizzare sul rischio dei cambiamenti climatici, e Papa Francesco, che ha deciso di incontrarla ed ascoltarla. “Chiederò ‘chi manca?’. Manca la mia generazione, quella intermedia”, prosegue Brunori, sottolineando la forza espressiva di quell’immagine. “Nello scatto ci troviamo tra due grandi pilastri, quello della morale cattolica, e quello dei giovani che ci stanno dicendo ‘ehi adulti, la nostra casa va in fiamme, io voglio avere lo stesso futuro che hai avuto tu’ – spiega il “dottore degli alberi” – Il mio ruolo è quello di stare nel mezzo. Di tirare un filo tra queste due parti, scienza ed emozioni. Di far ascoltare quello che l’occhio non riesce a vedere perché, come diceva Goethe, non conosce”. Un esempio? Il taglio degli alberi. “Il 90% delle persone dice di non tagliare gli alberi perché distruggi la natura, ma non è vero – spiega ancora il dottore – Con il taglio tu rendi un ambiente fotosintatticamente attivo. Mentre oggi in Italia non si taglia più, ed ecco che si sviluppano le problematiche degli incendi e delle frane, legati agli alberi vecchi e all’aumento delle biomasse”.
Far ascoltare la voce degli alberi, però, non sarebbe possibile senza il lavoro di ricerca che Antonio sta portando avanti nel bosco di Piegaro, in provincia di Perugia, il primo progetto in campo in Italia. La “foresta 4.0”, come la chiama Antonio, funziona grazie a dei sensori, i tree talker, collegati a una trentina di piante che mandano segnali al Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici. Le informazioni hanno un flusso continuo che viene automaticamente mandato in rete, in un sistema, spiega Brunori, che collega tutti i 400 alberi in giro per il mondo in cui è stato installato un tree talker. “Per ora siamo ai primi sei mesi di esperimento – spiega il dottore forestale a ilfattoquotidiano.it – Abbiamo iniziato il giorno di San Francesco, in suo onore, e finora abbiamo visto che questa stagione vegetativa è più lunga della media di almeno due settimane. Un problema soprattutto per le latifoglie che così allungano i tempi di caduta, iniziano prima la stagione e hanno meno tempo di “dormienza”. Sono le differenze climatiche, come l'abbassamento repentino della temperatura, a provocare una reazione anomala delle piante che, spiega Brunori, “fanno meno fotosintesi e diventano più ricettive alle malattie”. In poche parole, sono “continuamente sotto stress”. “L'ambiente è continuamente danneggiato da inquinamento, variazioni di temperatura – conclude Brunori – E gli alberi non sono come gli animali, non possono migrare. Sono radicati. Per questo capiamo gli estremi climatici in cui vengono coinvolti, come l'aumento di anidride carbonica, o le tempeste di vento che hanno distrutto, solo lo scorso ottobre, molte foreste dell'arco alpino. Per questo siamo noi a dover aiutare gli alberi ad adattarsi al cambiamento”.
Al KIDSBIT però non ci sarà solo Brunori. Saranno tante le installazioni artistiche interattive, gli spettacoli e i laboratori creativi a cui i giovani e meno giovani potranno partecipare. Sarà possibile far
sbocciare dei fiori digitali grazie all'artista canadese Maotik, ma anche prendersi cura di una foresta intera, grazie alla realtà virtuale del tedesco Benjamin Rabe. E poi Carlo Alberto Brunori dell'INGV con il suo “There is no planet B” parlerà del fenomeno dello scioglimento dei ghiacciai e delle sue gravi ripercussioni sull'ambiente creando una performance che coinvolgerà direttamente gli spettatori. Infine sarà lanciata una campagna di crowdfunding: ogni euro donato si trasformerà in un nuovo albero che crescerà nel vivaio della scuola elementare di Usambara, in Tanzania.

Martina Milone

domenica 17 marzo 2019

CAMBIO CLIMATICO? CALORE IN AUMENTO? “CERCATE L'EGO”



“Cercate la donna” (Cherchez la femme), si diceva una volta per giustificare in qualche modo una qualunque azione, buona, positiva, o al contrario non proprio ortodossa, di un maschio. I tempi cambiano, le donne ora non hanno più bisogno di realizzarsi attraverso le ambizioni dei propri partner perché sanno farsi valere con le proprie forze, e gli uomini sono molto più determinati e, a volte, perfidi di un tempo. E in ogni caso si trattava di un'esortazione del tutto sbagliata, così come appare in modo sempre più evidente ai nostri giorni. Dire “Cercate l'ego” è certamente più esatto. L'ego malato, accentratore, che sa tanto di sensazione di onnipotenza. Ci pensavo proprio nei giorni scorsi, in occasione delle strepitose, stupende, manifestazioni di protesta giovanili, per denunciare i pericoli che derivano dal cambio climatico, verso cui la Terra sembra ormai avviata, e l'ignavia e la connivenza dei potenti. Che a causa della loro drammatica miopia o di sciagurati interessi economici immediati (senza pensare al futuro) non fanno niente per limitare le emissioni pericolose per il clima e invertire questo processo, che rischia di portare il nostro pianeta e l'umanità al collasso nei prossimi decenni. Il problema di base è che noi uomini siamo convinti di essere i padroni assoluti di questo globo che rotola da miliardi di anni nel vuoto cosmico, mentre siamo stati proiettati qui come semplici ospiti, per qualche motivo misterioso e per qualche fine altrettanto misterioso, da una Coscienza non meno misteriosa. Già, ospiti e non padroni. Certo non più padroni di una lucertola, di un moscerino, di uno squalo o di una quercia. Invece gli uomini credono di essere gli unici degni, e in diritto, di vivere appieno la propria esistenza qui, da veri colonizzatori, senza alcun rispetto per niente e nessuno. Io credo che, a ogni nostra azione, dovremmo ricordare che siamo soltanto di passaggio, un passaggio anche breve, e che la Terra certo ci sopravviverà per milioni di anni. Solo questi pensiero ci dovrebbe indurre a ridimensionare la nostra sensazione di onnipotenza. E dovrebbe anche spingerci a rispettare la Terra, a comportarci nei suoi confronti proprio come se fossimo stati invitati a casa di una persona amica che ci offre una cena e la possibilità di godere della sua piacevole compagnia, della bella musica che ci fa ascoltare, delle belle idee che ha da comunicarci in uno scambio di ricordi, sensazioni, opinioni e così via. La terra ci offre molto di più, naturalmente. Ogni attimo di vita qui è qualcosa di miracoloso, per le ondate di bellezza che ci arrivano da ogni parte, anche se noi diamo tutto per scontato e non ci meravigliamo di niente. Ebbene, ci sogneremmo di lasciare la casa del nostro ospite  piena di cicche per terra, rifiuti d'ogni genere in giro, sporco dopo aver utilizzato il bagno di casa sua, e così via? Ecco, ogni giorno dovremmo ricordarci di essere ospiti su questa Terra e di avere dei doveri di rispetto nei suoi confronti, perché non è nostra proprietà e perché siamo persone civili. Non comportandoci in questo modo virtuoso, oltretutto, alla lunga rischiamo di alterarne l'equilibrio e di averne conseguenze terribili. Sappiamo tuti che, continuando così come stiamo facendo, altereremo in modo drammatico il clima, ci saranno terribili carestie e mancanza d'acqua potabile, e l'umanità si avvierà all'estinzione.
Io trascorro molto del mio tempo in un paesino arroccato sulle colline del magnifico lago di Garda, e spesso la strada statale che sale in montagna è percorsa da ciclisti e scooteristi. Sono persone che, proprio per il loro senso di libertà, dovrebbero amare stare in contatto con la natura e amarla. Ebbene, alcuni di loro, che forse preferiscono piuttosto la velocità e la voglia di mettersi alla prova con le proprie abilità, molto spesso abbandonano bottigliette vuote di plastica lungo i margini della strada. Io, che cammino moltissimo lasciando il più possibile l'auto nel parcheggio, ne raccolgo a decine ogni settimana e le porto nel primo punto raggiungibile di raccolta dei rifiuti. A volte ne ho anche quattro o cinque tra le mani. Quando ne vedo una abbandonata tra il verde, sento un piccolo colpo al cuore perché vivo questa visione come un insulto alla Terra. Come si può essere così insensibili e irrispettosi nei confronti della natura, ben sapendo (ormai chi non ne è informato?) che la plastica non è facilmente degradabile e, anzi, ha un ciclo di vita lungo secoli? Come si possono ignorare le ripetute esortazioni diffuse dai media a evitare queste vergognose azioni? È così faticoso e fastidioso tenere con sé una bottiglietta vuota, fino al punto di raccolta di rifiuti più vicino, e depositarla al suo interno? Ricordiamo: anche un piccolo gesto come questo può contribuire a salvare la nostra Terra.

martedì 12 febbraio 2019

RIDI, PIANGI, TOCCA E SENTI DI PIÙ. PER LIBERARE “MANIPURA” E RILASSARE LA MENTE


L'importanza del plesso solare. Parliamo spesso del terzo Chakra, a volte senza sapere davvero che cos'è, come funziona, quale compito ha nell'economia delle nostre energie sottili. Lo strepitoso Osho, come al solito, ci viene in soccorso e ci spiega con parole semplici ma efficaci, cose molto interessanti al riguardo. Ecco dunque un passo dal suo libro Il benessere emotivo - Trasformare paura, rabbia e gelosia in energia positiva, Oscar Mondadori.

In India il plesso solare è chiamato manipura, è il centro di tutti sentimenti, delle emozioni: noi continuiamo a reprimere le emozioni del manipura. Il termine significa “il diamante”: la vita ha valore a causa di tutte queste cose, che sono la gloria della vita, per questo il terzo chakra, il terzo centro di energia si chiama manipura, il chakra del diamante. Solo l'essere umano è in grado di avere questo prezioso diamante. Gli animali non possono ridere, e quindi non possono neanche piangere: le lacrime appartengono a una particolare dimensione, accessibile solo all'uomo. La bellezza delle lacrime, la bellezza della risata, la poesia delle lacrime e la poesia della risata sono accessibili solo agli umani; tutti gli altri animali vivono soltanto nei primi due chakra o centri: il muladhara, o centro sessuale, il centro della vita, e lo svadhistana, l'hara, ovvero il centro da cui la vita lascia il corpo. Gli animali nascono e muoiono, tra i due eventi non c'è un granché; se anche tu ti limiti a nascere e morire, e ti confini solo in questo, sei solo un animale, non sei ancora umano. E molti, milioni di persone, esistono solo in questi due chakra, non vanno mai oltre.
Ci hanno insegnato a reprimere le emozioni, ci hanno insegnato a non essere sensibili; ci hanno insegnato che le emozioni non pagano: sii pratico, duro, non essere malleabile, non essere vulnerabile, altrimenti tutti ti sfrutteranno. Sii un duro! O perlomeno fa' il duro, fingi di essere pericoloso, di non essere un tenero; semina la paura intorno a te: non ridere, perché se ridi, non puoi far paura agli altri; non piangere, piangendo mostreresti di avere paura. Non mostrare le tue debolezze umane: fingi di essere perfetto.
Se reprimi il terzo centro, diventi un soldato, non un uomo ma un soldato: un militare, un falso uomo.  Nel Tantra si fa un lavoro enorme per rilassare il terzo centro: le emozioni devono essere liberate, rilassate. Se ti viene voglia di piangere, devi piangere, se ti viene da ridere, devi ridere. Devi smetterla con questa assurda repressione, devi imparare a esprimerti, perché solo attraverso i sentimenti, tramite le emozioni, grazie alla tua sensibilità, arriverai a quella vibrazione che renderà possibile la comunicazione.
Non l'hai notato? Puoi parlare fin che vuoi e non dire nulla, ma basta una lacrima sul tuo viso e tutto è espresso: una lacrima dice moltissimo. Puoi parlare per ore inutilmente, ma solo una lacrima può dire tutto ciò che vuoi esprimere. Puoi continuare a ripetere: “Sono molto felice, sono questo e quest'altro…”, ma il tuo volto può esprimere il contrario. Una risata, una vera, autentica risata, e non hai bisogno di dire una parola: la risata dice tutto. Quando vedi un amico, il tuo viso si illumina di gioia.
Il terzo centro dev'essere reso sempre più utilizzabile, aperto e accessibile. Si contrappone al pensiero, quindi, se lo lasci libero, la tensione della tua mente si rilasserà più facilmente.
Sii autentico, sensibile, tocca di più, senti di più, ridi di più, piangi di più…
Quindi non avere paura, e non essere gretto, non essere avaro.